Oggi voglio portarti dentro una riflessione intima, potente, spesso sottovalutata ma incredibilmente importante nel percorso di consapevolezza alimentare: “Perché mi manca la parte di me che si abbuffava?”
Se preferisci ascoltare, ecco l’episodio del podcast:
Ascolta "Perché mi manca la parte di me che si abbuffava?" su Spreaker.Lo so, può sembrare una domanda paradossale. Ti sei impegnata tanto per uscire da quel meccanismo, hai sofferto, forse ti sei sentita in trappola per mesi, anni… e ora che stai iniziando a liberartene, senti dentro di te una strana nostalgia.
Ti assicuro che questa sensazione è reale, è comune, ed è soprattutto un segnale che stai entrando in una fase profonda e trasformativa del tuo percorso.
Quando il dolore diventa casa
Per tanto tempo, forse per anni, le abbuffate non sono state solo un comportamento alimentare. Non sono mai state solo “mangiare troppo”.
Sono state un rifugio. Un modo per gestire la solitudine, il senso di vuoto, la fatica, l’ansia, la tristezza.
Ogni volta che il mondo sembrava troppo, ogni volta che le emozioni diventavano ingestibili, quella parte di te si faceva avanti. E ti offriva una soluzione. Imperfetta, certo. Dolorosa, lo sappiamo. Ma immediata.
E oggi, nel momento in cui inizi a lasciare andare quel comportamento, può arrivare un senso di smarrimento. Di mancanza. È come se stessi salutando un’amica che, nel bene e nel male, è stata lì nei momenti più difficili.
Ed è normale che ti manchi.
La parte di me che si abbuffava era una protezione
Molto spesso questa sensazione genera confusione:
“Com’è possibile che mi manchi qualcosa che mi ha fatto stare così male?”
Ma il punto è che non ti manca il dolore. Non ti manca il malessere. Ti manca il conforto che, per un certo periodo della tua vita, quell’abitudine ti ha dato.
Perché sì, anche un meccanismo disfunzionale può avere avuto un senso, una funzione. Ti ha aiutato a sopravvivere in momenti in cui forse non avevi altre risorse.
E oggi, nel momento in cui quella strategia inizia a venire meno, è normale sentire un vuoto. Un vuoto che non è solo l’assenza del cibo, ma è l’assenza di quello che quel cibo rappresentava.
Il legame invisibile (ma potentissimo)
Quando ti chiedi “Perché mi manca la parte di me che si abbuffava?”, stai in realtà toccando uno dei nodi più profondi del lavoro su te stessa: riconoscere che quella parte non era lì per farti del male.
Era lì per proteggerti. A modo suo.
Era la tua strategia di sopravvivenza quando la vita era troppo. Quando le emozioni erano troppo. Quando non sapevi da dove cominciare a prenderti cura di te.
E anche se oggi riconosci che quel comportamento ti faceva stare male, non puoi cancellare il fatto che per tanto tempo ha svolto una funzione.
Esempi concreti: quando il cibo era un rifugio
Pensa a quelle sere in cui rientravi a casa esausta, dopo una giornata in cui tutti sembravano pretendere qualcosa da te.
Il capo, i colleghi, la famiglia, i figli. Tutti a chiedere, a volere, a domandare. E tu a dare, a reggere, a controllare.
E poi… il silenzio della casa. Quella sensazione di vuoto. Quella domanda silenziosa: “E adesso chi si prende cura di me?”
E lì arrivava lei: l’abbuffata. Il frigorifero che si apriva. Le mani che cercavano qualcosa, qualsiasi cosa. Non era fame. Era bisogno. Bisogno di tregua.
E se oggi quella parte non c’è più, se oggi stai imparando a non cedere più a quell’impulso… è normale che tu senta il peso di quello spazio vuoto.
Cosa cercava davvero la parte di me che si abbuffava?
Dietro ogni abbuffata non c’è mai solo il cibo. C’è un bisogno profondo.
E allora ti invito a porti queste domande, con estrema gentilezza, senza giudizio:
- Cosa cercava davvero quella parte di me?
- Cosa mi dava quel cibo, oltre al sapore?
- Era conforto? Era una pausa? Era compagnia? Era una forma di auto-cura, anche se disfunzionale?
Forse, quel gesto era l’unico modo che avevi per dirti:
“Mi prendo cura di te, almeno per un momento.”
Non si tratta di combattere quella parte, ma di ascoltarla.
(Se vuoi approfondire, ho parlato di self-care legato all’alimentazione qui)
Il percorso non è una guerra contro te stessa. Non si tratta di vincere contro le abbuffate, ma di ascoltare il messaggio che si portano dietro.
Perché se quella parte ti manca, è il segno che qualcosa lì dentro aveva senso. Aveva una funzione. E il lavoro ora è prenderci cura di quel bisogno… ma in modo nuovo.
Non negarlo. Non combatterlo. Non serve. Serve solo imparare a soddisfare quel bisogno in modi che non ti facciano più del male.
Lasciare andare non è dimenticare
Guarire non vuol dire cancellare. Non vuol dire fare finta che quella parte non sia mai esistita.
Anzi, è l’opposto. Guarire è integrare. È dire:
“Tu sei stata parte di me. Sei stata la mia protezione quando non sapevo fare altro. Mi hai aiutato a sopravvivere. Ma ora posso scegliere altro. Posso imparare modi nuovi di stare con me stessa.”
Lasciarla andare fa male, sì. Perché significa anche fare pace con il vuoto. Con il silenzio. Con il fatto che oggi non ci sono più anestesie pronte. Ma c’è spazio per qualcosa di più vero.
Questo dolore che senti, questa strana nostalgia, è il segno che stai attraversando un confine.
Non stai più scegliendo tra il dolore e l’anestesia. Stai scegliendo, piano piano, di stare. Di sentire. Di affrontare la vita senza più nasconderti da te stessa.
E sì, è faticoso. Ma è anche l’inizio di qualcosa di autentico.
Un dialogo interiore di guarigione
Prova a immaginare questo: sederti, mentalmente, davanti a quella te che si abbuffava. Guardarla negli occhi e dirle:
“Ti ringrazio. Ti vedo. So che hai fatto del tuo meglio. So che mi hai protetta come potevi. E ora ti lascio andare. Non perché ti rinneghi. Ma perché sto imparando a proteggermi in un altro modo.”
Questa domanda è un segno che stai guarendo
Se oggi ti chiedi “Perché mi manca la parte di me che si abbuffava?”, voglio che tu sappia che questa domanda non è un fallimento. È un segno di guarigione.
È la conferma che non stai semplicemente cambiando un comportamento. Stai trasformando il tuo modo di essere con te stessa.
È il passaggio da una vita vissuta a combattere contro il dolore… a una vita in cui impari a stare con te, a volerti bene, a sostenerti davvero.
Non è la fine del percorso. È l’inizio di qualcosa di molto più grande, più vero, più gentile e compassionevole verso di te
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